Dare ossigeno alla ripresa economica post Covid, tagliando la CO2

Un tasso medio annuo di crescita del Pil del 5% nei prossimi anni, per arrivare a un aumento complessivo del 30% al 2020, rispetto a uno scenario senza gli aiuti Ue, con significative ricadute sull’occupazione e sulla riduzione del debito pubblico.

Questi sono alcuni dei risultati economici ai quali possiamo arrivare se useremo le risorse del Recovery Fund puntando sulla decarbonizzazione e abbinandole a una serie di riforme che passano per un approccio ambientale alla fiscalità, una sburocratizzazione di comparti chiave come quello delle rinnovabili e a un ruolo centrale della spesa pubblica nella transizione energetica.

A indicarlo è il nuovo studio “Ossigeno per la crescita. La decarbonizzazione al centro della strategia economica Post-Covid” realizzato da una squadra di esperti provenienti dal mondo economico, accademico, associativo e della consulenza coordinati da Ref-e (link in basso).

“Serve un’innovazione della policy che deve superare le fragilità del nostro sistema decisionale, riconoscere la decarbonizzazione come un’opportunità, tracciare una strategia coerente e solida nel tempo ed innescare l’effetto moltiplicativo degli investimenti privati”, si legge nel rapporto che mette in evidenza il ruolo del taglio delle emissioni nella ripresa economica a livello macroeconomico, di riforme strutturali nei campi della fiscalità, della finanza sostenibile, dell’economia circolare, del Green Public Procurement e del lavoro e di sei settori strategici chiave quali l’industria, l’efficienza energetica, il sistema elettrico, i trasporti, il cibo e l’adattamento ai cambiamenti climatici.

In gioco infatti c’è molto. Il punto di partenza è questo 2020, per il quale Ref-e si attende una caduta del Pil dell’8,4%, un crollo degli investimenti al 16% del Pil e un rapporto debito pubblico/Pil vicino al 160%, con “rilevanti impatti su lavoro e diseguaglianza”.

E questo punto di partenza è un bivio: in uno scenario virtuoso, mostra la simulazione Ref-e, l’accelerazione nel periodo di accesso ai finanziamenti comunitari è imponente, perché dopo il rimbalzo, il tasso di crescita medio annuo si mantiene vicino al 5% per qualche anno per scendere al 3,5% medio e convergere nel lungo termine su livelli vicini al 2%.

“Tale traiettoria è in grado di sostenere la transizione energetica, e generare le condizioni per il rientro del debito”, si spiega e si aggiunge che “il buon utilizzo dei fondi comunitari riporta il Pil al 2030 su un valore del 30% circa superiore a quello in assenza dei finanziamenti comunitari e del 15% rispetto allo scenario conservativo.”

Significativo anche l’impatto sul lavoro: nello scenario preferibile, il tasso di occupazione per la popolazione in età attiva sale dal 57% del 2020 al 68% nel 2030, “ancora inferiore alla media europea ma con un forte miglioramento delle opportunità per i più giovani”. Seppure significativa, la riduzione del rapporto debito/Pil al 2030 nello stesso scenario appare sufficiente a far rientrare sui livelli pre-Covid, ma non a ritornare sui livelli pre-crisi finanziaria del 2008.

Nello scenario conservativo, invece, dopo il rimbalzo del 2021 la crescita procede, negli anni di utilizzo dei fondi comunitari, vicina al 2% per poi convergere nell’intorno dell’1% dopo il 2030. Gli obiettivi di decarbonizzazione sono incerti e non raggiungono il target di lungo periodo di neutralità climatica. Il rapporto debito/Pil non riesce a scendere ancora al 2030 a livelli inferiori al 140%.

La differenza tra i due scenari – si spiega – è fondamentalmente da ricondurre alle assunzioni circa la capacità di spesa dell’Italia che è messa in relazione alla coerenza delle politiche per la decarbonizzazione come segnale per il sostegno agli investimenti privati.

Nello scenario virtuoso, la capacità delle politiche pubbliche permette di impegnare e spendere l’80% delle risorse europee e contestualmente attivare gli investimenti nel settore privato. Nello scenario conservativo, “che riproduce la storica incapacità dall’Italia di sfruttare appieno le risorse comunitarie”, si riesce a spendere solo parte delle risorse Ue, il 50%, in un contesto di riluttanza del settore privato all’innovazione a fronte della crisi di liquidità, a seguito del lockdown, non compensata da una chiara direzione della politica economica e delle scelte per la decarbonizzazione.

Come fare sì che si avveri lo scenario migliore? Molte le direttrici da seguire indicate dal rapporto: si parla ad esempio di coinvolgimento delle Regioni negli obiettivi di decarbonizzazione; fondamentale poi adottare una strategia a lungo termine per la transizione energetica come richiesta dall’Accordo di Parigi e dal regolamento di governance europeo al gennaio 2020, strategia che il Pniec non ha.

Centrale sarà il ruolo dello Stato “non più unicamente come estensore di politiche e misure ma direttamente nel finanziamento della transizione energetica, con le proprie scelte di spesa pubblica, facilitazioni e sostegni alle imprese e alle famiglie e con il sostegno alla ricerca e all’innovazione”.

Il rapporto parla ad esempio del Green Public Procurement, ricordando che abbiamo una domanda pubblica con un volume di spesa di circa 170 miliardi di euro all’anno, ma ricorda anche l’importanza di ridurre il rischio regolatorio rispetto agli investimenti e ai progetti sulla decarbonizzazione.

Sempre parlando dell’importanza della spesa pubblica, le regole europee imposte dal fiscal compact, solo temporaneamente sospese, “dovranno essere ripensate”, si legge ancora nel report.

Ma molto per trasformare il sistema energetico si potrà fare anche agendo sulla leva fiscale: in un’auspicabile riforma “non sarà necessario incrementare il peso fiscale, ma iniziare a riorientare le aliquote in maniera coerente con la decarbonizzazione. La proposta di trasferire sulla fiscalità gli oneri generali di sistema della tariffa elettrica e sostituirli con l’introduzione di una fiscalità coerente con la politica di decarbonizzazione, rappresenta un esempio di questo percorso.”

Importante sarà poi il ruolo della finanza: occorre “disinvestire dai progetti legati ai combustibili fossili, che alimentano il fenomeno del lock-in e con esso l’esposizione dei capitali ai rischi legati al cambiamento climatico”, si avverte.

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Source: Qualenergia.it

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