Quanta energia può risparmiare una città con l’illuminazione pubblica a led?

Efficienza energetica e reti “intelligenti” sono due aspetti egualmente importanti nei progetti di illuminazione pubblica con i led, che consentono ai comuni non solo di tagliare le bollette elettriche, ma anche di fornire nuovi servizi a valore aggiunto: quanto si può risparmiare in media, quali tecnologie entrano in campo, come valutare il ritorno dell’investimento?

Nel complesso, spiega a QualEnergia.it Christian Mazzola, coordinatore del focus group illuminazione pubblica di Assil (Associazione nazionale produttori illuminazione), l’energia utilizzata per illuminare tutte le città italiane vale il 10-12% dei consumi elettrici nazionali ed è una voce consistente anche nei bilanci dei singoli comuni.

Tipicamente, secondo il Gse (Gestore dei servizi energetici), l’illuminazione pubblica rappresenta il 20-30% della bolletta energetica comunale.

Le opportunità di risparmio

In media, racconta Mazzola, “sostituire le vecchie lampade con quelle più moderne a led consente di abbattere i consumi elettrici del 50% ma molto dipende dalla situazione di partenza”.

Ad esempio, chiarisce l’esperto di Assil, “le lampade a ioduri metallici o a vapore di sodio normalmente rimangono sotto 100 lumen/watt e le lampade a vapori di mercurio, ormai bandite, non raggiungono 70 lumen/watt, mentre con i led si superano 150 lumen/watt”.

Poi non sempre sostituire tutti i punti luce esistenti con lo stesso numero di led è la soluzione ideale, perché spesso ci si imbatte in impianti molto obsoleti, dimensionati per condizioni urbanistiche e di traffico che non sono più le stesse.

In alcuni casi, precisa Mazzola, “ad esempio quando sono ancora presenti lampade a mercurio, installando apparecchi led capita spesso di dover aumentare i punti luce, per adeguare l’illuminazione pubblica stradale alle normative tecniche emanate per migliorare la sicurezza stradale e contenere i consumi energetici”.

In altre situazioni, invece, “quando si passa da lampade a ioduri metallici o vapore di sodio ai led, si può ridurre il numero complessivo di punti luce, garantendo un extra risparmio energetico, grazie anche alla maggiore flessibilità dei led nella regolazione del flusso luminoso, che fa ottenere il giusto livello di illuminazione richiesto di volta in volta, ad esempio variando il flusso tra la sera e la notte”.

In quanto tempo si ripaga l’investimento iniziale?

Anche qui vale la considerazione che “dipende dalla situazione di partenza”, in media si parla di un payback di 5-6 anni ma in parecchi contesti, spiega Mazzola, “si può scendere a 3-4 anni”.

I principali fattori da considerare nel calcolo del payback sono i minori costi di manutenzione e i risparmi conseguibili attraverso la riduzione dei consumi energetici: di solito, precisa l’esperto, “si calcolano 4.200 ore di funzionamento/anno per ogni corpo illuminante e si moltiplica il consumo in kWh per il costo dell’energia. Questi vantaggi vanno poi comparati con la spesa per l’adeguamento dell’impianto, cioè con il costo per sostituire gli apparecchi o installare nuovi punti luce”.

Per abbassare tempi e costi dei progetti, afferma Mazzola, occorre seguire con attenzione i criteri ambientali minimi [criteri ambientali minimi per i servizi di illuminazione pubblica, disciplinati dal DM 28 marzo 2018, ndr], che definiscono tutti gli elementi che entrano in gioco in questo tipo di interventi: caratteristiche delle lampade (efficienza, durata, prestazioni) in base ai diversi luoghi in cui vanno installate, gestione e manutenzione dell’impianto e così via.

Un aiuto fondamentale ai comuni può essere dato dai certificati bianchi o titoli di efficienza energetica, riconosciuti dal Gse per attestare il conseguimento di risparmi negli usi finali di energia: un titolo equivale al risparmio di una tonnellata equivalente di petrolio (Tep) e ogni Tep corrisponde a 5.347 kWh elettrici.

Ricordiamo che i certificati sono erogati dal GSE per cinque anni per i progetti di relamping (rifacimenti/sostituzioni), sette nel caso di nuovi impianti di illuminazione pubblica.

Quindi con il contributo dei certificati bianchi è possibile ridurre ancora il tempo di ritorno dell’investimento oltre a facilitare la realizzazione di progetti che spesso richiedono una spesa iniziale elevata; ecco perché le iniziative di relamping, in tantissimi casi, sono affidate in project financing a società specializzate nei servizi energetici (Energy Service Company, ESCo), incaricate di seguire il lavoro di riqualificazione in ogni aspetto, compreso il finanziamento e la richiesta dei titoli al GSE.

Sostituire le vecchie luci con quelle a led, spiega poi Mazzola, “non è solo un fine per risparmiare sulle bollette, ma anche un mezzo per migliorare la qualità complessiva dell’illuminazione pubblica e offrire nuovi servizi ai cittadini”.

Dall’efficienza alla smart city

Con l’illuminazione a led si può parlare di luce digitale e di smart city, la città “intelligente” dove la stessa infrastruttura per l’illuminazione pubblica può essere usata per implementare nuovi dispositivi e servizi.

In altre parole: il lampione non serve più solo a illuminare (e illuminare meglio che in passato, grazie ai più elevati indici di resa cromatica dei led rispetto alle vecchie lampade), ma anche a sviluppare una rete elettrica digitalizzata, che si può controllare e gestire a distanza.

“Ci sono tre livelli di intelligenza”, prosegue Mazzola. “Il primo è la dimmerazione dei punti luce secondo determinate condizioni reali di utilizzo, ad esempio in base alle condizioni atmosferiche nei vari momenti della giornata. È una dimmerazione intelligente stand-alone programmata in fabbrica, tramite specifici algoritmi che consentono alle lampade di lavorare in funzione di certi parametri”.

Ormai però quasi tutti i progetti prevedono almeno la predisposizione al secondo livello di intelligenza, “che prevede il telecontrollo dei punti luce attraverso un dialogo unidirezionale tra le lampade e la centrale di monitoraggio”, spiega il nostro esperto.

Infine, il terzo livello di illuminazione pubblica smart prevede una comunicazione bidirezionale: così la centrale di controllo può inviare comandi alla periferia, cioè ai singoli lampioni, cambiandone lo stato.

Un altro possibile approccio è il cosiddetto IoT (Internet of Things), il “web delle cose” che permette a ogni punto luce, tramite differenti sensori applicati agli impianti, di trasmettere dati e informazioni sul suo funzionamento e di autoregolarsi in tempo reale.

Difatti, un apparecchio è veramente smart, chiarisce Mazzola, “quando è in grado di comunicare con altri apparecchi di mondi diversi utilizzando la stessa lingua, cioè quando la luce può parlare con le telecamere di videosorveglianza, gli impianti per il controllo del traffico e dei parcheggi, e così via”.

Così è possibile utilizzare la stessa infrastruttura, la rete di illuminazione pubblica digitalizzata, per implementare servizi accessori utili ai cittadini e alle imprese: telecamere di sicurezza, centraline per il monitoraggio dei dati ambientali, punti di ricarica dei veicoli elettrici, dispositivi per le reti di telecomunicazione a banda larga.

Source: Qualenergia.it

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