I piani di rilancio economico dei G20 sono troppo sbilanciati sulle fonti fossili

I piani di rilancio economico di molti Paesi del G20, secondo il 2020 Climate Transparency Report, rischiano di aiutare i combustibili fossili anziché i progetti per il clima.

Lo studio, pubblicato da Climate Transparency (rete globale di 14 organizzazioni e istituti di ricerca su temi energetici e ambientali), afferma che i Paesi del G20 continueranno a finanziare massicciamente le energie tradizionali e più inquinanti.

Tra i punti più controversi, si legge nel documento, ci sono i sussidi ai combustibili fossili: nel 2019 sono ammontati a 130 miliardi di dollari nel G20 (117 miliardi di $ nel 2018) e non ci sono segnali di un’inversione di tendenza, anche se diversi governi si erano impegnati a eliminare gradualmente questi sussidi.

L’Italia ha contribuito con quasi 10 miliardi di dollari nel 2019. E le maggiori economie mondiali spenderanno ancora di più per sostenere petrolio, carbone e gas, nell’ambito dei rispettivi pacchetti di stimolo finanziario.

Ad esempio, segnala Climate Transparency, solo cinque Paesi del G20, tra cui l’Italia, prevedono di uscire dal carbone nei prossimi anni.

Come si evince dal grafico seguente, tratto dal rapporto, la maggior parte (53%) dei finanziamenti per il settore energetico è indirizzata verso le fonti fossili.

Parliamo di circa 174 miliardi di dollari per gas e petrolio e 16 miliardi per il carbone (il dato arriva a metà ottobre 2020).

La maggior parte di questo denaro, evidenzia lo studio, sarà elargita senza condizionalità ambientali: in altre parole, si potrà spendere senza dover investire in progetti o iniziative per ridurre le emissioni di anidride carbonica.

Dallo studio emerge, quindi, un notevole “buco” tra gli obiettivi di neutralità carbonica al 2050 e le politiche di breve-medio termine perseguite dai governi.

L’Europa, la Cina, il Giappone, si sono impegnati ad azzerare le emissioni di CO2 entro metà secolo, ma le loro politiche dovranno cambiare in modo più rapido e profondo.

Rimanendo in Europa, mentre imperversa il braccio di ferro per sbloccare il Recovery Fund – con il veto di Ungheria e Polonia – facciamo un passo indietro a ottobre, per ricordare che la Commissione per l’ambiente del Parlamento Ue (ENVI, Environment Committee) ha approvato una risoluzione sul Recovery Fund che esclude le fonti fossili dai prossimi finanziamenti europei di rilancio economico.

Tra l’altro, la legge sul clima votata al Parlamento Ue ai primi di ottobre, oltre al taglio delle emissioni del 60% nel 2030, prevede di eliminare del tutto i sussidi diretti-indiretti ai combustibili fossili entro il 2025.

Quindi sarebbe un po’ un controsenso ammettere le fonti energetiche fossili al Recovery Fund, che invece dovrebbe essere focalizzato sulla ripresa economica sostenibile.

Troppo carbone in Europa

Intanto una recente analisi di Ember, think-tank indipendente specializzato nelle ricerche sul clima, mostra che c’è troppo carbone (e troppo gas) nei piani nazionali su energia e clima al 2030 di vari Paesi Ue.

Con il rischio, afferma Ember, di spendere in fonti fossili una buona fetta del Just Transition Fund, il nuovo fondo Ue incentrato sul Green Deal che, invece, dovrebbe aiutare i paesi ad abbandonare i combustibili più inquinanti, in nome di una transizione equa e sostenibile per tutti.

Nello studio Just Transition or Just Talk? si spiega che sette paesi, sui 18 che oggi utilizzano carbone per produrre energia elettrica, continueranno a usare carbone anche dopo il 2030.

In questo gruppo figura la Germania oltre al blocco di nazioni dell’est: Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Romania, Polonia, Slovenia.

E altri quattro paesi, tra cui l’Italia, hanno pianificato di uscire totalmente dal carbone entro il 2030, ma convertendo una parte rilevante degli impianti a carbone in nuove unità a gas e perpetrando così un mix energetico a dominanza fossile (vedi anche qui).

Il ritardo italiano

In un successivo documento, intitolato Vision or division?, Ember sostiene che l’Italia continuerà a usare troppo gas per produrre energia elettrica, tanto da essere uno dei sette Paesi europei – gli altri sono: Belgio, Bulgaria, Germania, Polonia, Repubblica Ceca, Romania – che stanno rallentando la transizione verso le fonti rinnovabili.

Anche le nuove proiezioni dell’Energy & Strategy Group del Politecnico milanese mostrano che il mix elettrico italiano, nello scenario “tendenziale”, rischia di essere lontanissimo dal raggiungere gli obiettivi per le rinnovabili nel 2030.

Se non ci sarà una forte accelerata degli investimenti in nuovi impianti eolici e fotovoltaici, tra dieci anni mancheranno all’appello 27 GW di potenza installata nelle tecnologie pulite, rispetto al traguardo fissato dal Pniec che diventano 47 GW contando il maggiore impegno richiesto dal prossimo innalzamento degli obiettivi Ue su energia e clima; si punta a ridurre le emissioni di CO2 del 55-60% nel 2030 rispetto ai livelli del 1990, mentre l’obiettivo attuale è fermo a una riduzione del 40%.

Così l’Italia, nel 2030, precisa Ember, sarà responsabile di circa il 10% delle emissioni totali del settore elettrico europeo, al terzo posto dietro Germania e Polonia con, rispettivamente, il 30% e 22% per via del loro ampio uso di carbone. La Germania, infatti, intende uscire dal carbone entro il 2038, mentre la Polonia non ha alcun piano per eliminare questa fonte fossile.

Difatti, scrive Ember, tra il 2018 e il 2025, l’Italia sta pianificando la più grande espansione dell’impiego di gas fossile nel settore elettrico all’interno dell’Ue, principalmente guidata dal passaggio da carbone a gas.

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Source: Qualenergia.it

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